Il 27 gennaio ricorre la Giornata della Memoria. Come ci ricorda Focus, per “Shoah” comunemente si intende la morte di quasi 6 milioni di Ebrei, uccisi tra il 1939 e il 1945. Un’interpretazione più ampia di Olocausto include anche soldati sovietici morti nei lager (tra i 2 e i 3 milioni), i polacchi (quasi 2 milioni), gli zingari (90.000-220-000), i disabili (150.000), i testimoni di Geova (2.000) e gli omosessuali – il cui dato certo non è noto.

Matilde, che ora ha 6 anni e mezzo, ha mostrato segni di diverso funzionamento fin dalla nascita anche se nessuno è stato in grado di cogliere le sfumature. Intorno ai 3 anni ha avuto la diagnosi di autismo severo con ritardo cognitivo. Secondo la valutazione dell’equipe che l’ha “studiata” aveva le capacità di un bimbo di poco più di un anno.
Sono tanti i pensieri che possono frequentare la mente di una madre che riceve una diagnosi di disabilità (di qualunque genere essa sia): “cosa accadrà quando io sarò morta potrà andare a scuola non parlerà mai non mi bacerà mai non mi ha mai guardata in faccia patirà una vita di solitudine e via dicendo. Badate bene che non c’è alcuna punteggiatura in questi pensieri. Non c’è perché quando ti si affaccia alla mente è come un tornado senza sosta che mischia parole e sentimenti oscurando qualunque cosa assomigli alla gioia e rosicchiandoti dall’interno come un maledetto parassita.

Oggi voglio parlarvi però di un pensiero particolare. Il pensiero che tutt’ora mi crea più terrore e disgusto contemporaneamente, nonostante la diagnosi di Matilde sia mutata in una maniera che era quasi impossibile prevedere. Se fossimo vissute durante l’Olocausto, mia figlia sarebbe rientrata nell’Aktion T4. Questo è il nome con cui viene indicato il Programma nazista di eutanasia che prevedeva la soppressione di persone affette da malattie genetiche inguaribili e da portatori di handicap mentali, cioè delle cosiddette “vite indegne di essere vissute”.
Se qualcuno mi venisse a dire che la vita di mia figlia è indegna di essere vissuta, per quanto io sia contraria alla violenza, credo lo prenderei a pugni in faccia. Il pensiero di tutte le vite stroncate ingiustamente mi da sofferenza, ma questo particolare caso mi tocca, per ovvi motivi, da vicino.

C’è un paio di scarpette rosse
di scarpette rosse per la domenica
a Buchenwald
erano di un bimbo di tre anni
forse di tre e mezzo
chissà di che colore erano gli occhi
bruciati nei forni
ma il suo pianto lo possiamo immaginare
si sa come piangono i bambini
anche i suoi piedini
li possiamo immaginare
scarpa numero ventiquattro
per l’eternità
perchè i piedini dei bambini morti non crescono
c’è un paio di scarpette rosse
a Buchenwald
perché i piedini dei bambini morti
non consumano le suole…
tratto da “C’è un paio di scarpette rosse…” di Joyce Lussu partigiana e scrittrice  (1912-1998)

Se credete che questo mio discorso sia una farneticazione, che oggi queste cose non accadano più, vi prego aprite gli occhi. Ogni volta che qualcuno svaluta la vita di un altro essere umano per la sua etnia, per il suo modo di pensare, di amare o per le sue differenti abilità e funzionamenti, quello è un nuovo Olocausto. Non facciamoci accecare perché non siamo salvi solo perché viviamo in un’altra epoca.
Rispettate il prossimo, non perchè qualcuno ve lo impone, ma perchè questo vi mantiene umani.

Vi lascio con questa riflessione, sperando di far breccia in chi di solito si volta dall’altra parte.

“Prima di tutto vennero a prendere gli zingari
e fui contento, perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei
e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali,
e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti,
ed io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me,
e non c’era rimasto nessuno a protestare.”
Martin Niemöller (1892-1984) sopravvissuto a Dachau (Germania)